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Nottola di Minerva o gufo anti-sfiga? La Scolastica, nel suo bagaglio, se li porta entrambi.

domenica 29 giugno 2014

La memoria al tempo dei Social

Gli insegnanti si confrontano spesso con la memoria. Per lungo tempo la stessa attività di insegnamento è stata concepita come pura trasmissione di un'eredità culturale che muoveva dal passato. Oggi, a scuola e nella società, la memoria ha assunto significati diversi. 
Celebriamo una o più Giornate della Memoria. Organizziamo viaggi di istruzione sui luoghi della memoria. Cerchiamo memorie e testimonianze di mestieri, giochi, abitudini perdute. Innalziamo monumenti. Affiggiamo targhe. Dedichiamo aule magne e biblioteche. Sembriamo sempre molto impegnati in un sforzo di conservazione del passato, di celebrazione, di salvataggio. 
Eppure la memoria sembra costantemente sotto assedio. 
Provo qui di seguito ad analizzare il rapporto tra memoria e società, memoria e scuola, memoria e social media.

1. La memoria è altruista e presuntuosa.
La memoria è un insieme di ricordi. Può essere vissuta interiormente o condivisa. Si parla di memoria collettiva quando si sommano i ricordi e le testimonianze di chi ha partecipato a un evento, vissuto la stessa epoca  o anche solo un intervallo di tempo comunemente reputato significativo.
La memoria umana è labile, frammentaria, soggetta a deterioramento e deformazioni. Allo scopo di preservarla, l’uomo si è servito da sempre di opere scritte, di opere materiali, di opere d’arte e monumenti in senso lato. L’esigenza di lasciare ai posteri tali segni è sempre nata dalla voglia di preservare il ricordo di un evento che si giudicava importante o capace di dare insegnamento a quelli che sarebbero venuti dopo.
La memoria, infatti, è altruista (dà insegnamenti) e presuntuosa (ritiene di poterlo fare). La memoria non è la storia, non nasce dalla selezione e dalla interrogazione delle fonti, dal confronto e dalla critica, è filtrata dalle emozioni, dalle ideologie, dalla cultura personale. La memoria può essere onesta e contemporaneamente poco attendibile. Non è un processo completamente razionale.
In passato, si attribuiva ad essa un’ importanza ben maggiore di quanto non accada ai giorni nostri. Di generazione in generazione, si trasmettevano valori, storie, miti, favole, nozioni, pratiche, saperi, per dirla in una parola, cultura. Col tempo, però, il bisogno di innovazione e l’accelerazione prodotta dal progresso tecnologico-scientifico ha determinato un atteggiamento di maggiore indipendenza dai codici del passato e se, in molti casi, ciò ha significato il superamento di pregiudizi e il raggiungimento di maturità intellettuale (si pensi alla battaglia illuminista contro il principio di autorità), purtroppo, altrettanto di frequente, questo atteggiamento ha significato disinteresse tuout-court per il passato e disprezzo per il bagaglio memoriale ed esperienziale delle generazioni precedenti. Caso limite e incendiario è stato rappresentato dai futuristi il cui programma dichiarava senza giri di parole: " Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, accademie di ogni specie". Anche adesso da più parti si rileva come, per esempio, le nuove generazioni siano così proiettate verso il futuro da dimenticare o svalutare il passato, che resta spesso uno sconosciuto sopratutto quando è assai recente. 

2. I luoghi della memoria: spunti didattici e problemi.


Avendo preso atto che è in pericolo la nostra stessa capacità di ricordare, sono nate oggi diverse iniziative che hanno come fine quello di preservare la memoria. Persino nel palinsesto televisivo, arricchito dai nuovi canali digitali, si nota una presenza discreta, ma costante, di canali dedicati alla memoria: archivi televisivi da cui riemergono trasmissioni, sceneggiati, caroselli, testimonianze di epoche non troppo lontane e perciò meno conosciute da un quindicenne di quanto non lo siano (FORSE) l’impero romano o l’età comunale.
Fra le numerose iniziative, oggi presenti in Europa, spicca l’allestimento dei luoghi della memoria, l’organizzazione della Giornata della Memoria per le vittime della Shoah, cui si stanno affiancando molte altre giornate commemorative di altre vittime e di altre tragedie. Si cercano i testimoni e si organizzano spazi e momenti per favorire il racconto e la condivisione col pubblico dell’esperienza da preservare. Tali iniziative non si ineriscono solo in contesti didattici, il loro valore educativo si esplica nei confronti di tutta la comunità, al punto che, negli anni, si è sviluppato un vero e proprio “turismo memoriale”, vissuto, tuttavia, piuttosto superficialmente.
I luoghi della memoria non sono sempre luoghi veri e propri, in senso materiale, spesso sono delle ricorrenze (la Giornata della Memoria) o opere letterarie in cui si condensa la memoria di un popolo. Essi servono a incrociare memorie spesso antagoniste (si pensi ai luoghi che sono stato teatro della Seconda Guerra mondiale) e conflittuali: per esempio, la memoria della comunità locale in contrapposizione alla memoria ufficiale. Tali luoghi raccolgono testimonianze di vario tipo il cui scopo primario non consiste nel rivolgersi agli storici di professione per una ricostruzione storiografica rigorosa, quanto nel supportare la memoria dell’uomo comune, attraverso un coinvolgimento emotivo con puntelli di vario tipo - filmati, musica, raccolta di immagini o oggetti, sapori-  che gli facciano ri-vivere l’ esperienza o l’evento da non dimenticare.
La stessa scuola può trasformarsi in un luogo della memoria. Come? Aprendo gli archivi. Recuperando i testimoni, cercandoli tra gli ex alunni, gli ex- docenti. Creando eventi.
Molte scuole portano in sé i segni degli avvenimenti più significativi del Novecento (dalle adunate fasciste ai bombardamenti, dalle contestazioni studentesche alle stragi mafiose) e possono diventare veri e propri musei aperti alla cittadinanza e al territorio.
La finalità di tali iniziative è prima di tutto l’educazione del cittadino. Accanto alla dimensione educativa, però, si può collocare anche la dimensione didattica, a patto però che una tale attività sia progettata con scrupolosa attenzione, non solo all’aspetto comunicativo, ma anche, e prima di tutto, all’aspetto storiografico. Perciò, un luogo deve essere sottoposto a critica, proprio come si fa con qualunque altra fonte storiografica. La presenza di testimoni è al contempo una grande ricchezza e una grande sfida. I racconti possono, infatti, essere conflittuali e contraddittori, tenderanno a singolarizzare la storia, laddove lo storico cerca la generalizzazione. Gli eventi narrati saranno influenzati dal punto di vista e dal significato stesso che si attribuisce alla rievocazione, aspetto, questo, che non deve spaventarci, ma che può diventare di estrema utilità se si voglia riflettere sull’uso pubblico della storia ai giorni nostri, stimolando riflessioni significative negli studenti più grandi[1]

3. La memoria ai tempi di Facebook.
Voglio analizzare adesso il rapporto che intercorre tra Social Network e memoria. E, di rimando, tra Social e nuove generazioni.
Immediatamente emerge un atteggiamento contradditorio, dissociato: da un lato, il progresso corre veloce e ci smemora - felici; dall’altro ci si sprona, con fare piuttosto impositivo, a ricordare. A moltiplicare le occasioni di rievocazione ingenua (feste a tema sugli anni Settanta Ottanta Novanta), rubriche strappalacrime (essere stati bambini negli anni Settanta, Ottanta, Novanta; giochi anni Settanta Ottanta Novanta; quadernini del passato e così via) e i facili festival della nostalgia.
Se ci spostiamo nell’ambito personale, ci accorgiamo che l’incongruenza persiste.
Lo slancio verso il nuovo ci spinge ad abbracciare, più o meno con criterio, i ritrovati della tecnologia e ad apprezzare i traguardi che, grazie ad essa, riusciamo a raggiungere. Non cambieremmo la macchina fotocopiatrice con la carta copiativa o un PC di oggi con uno di dieci anni fa e siamo profondamente immersi nel flusso dei consumi, per cui sappiamo che fra pochi anni (mesi?? giorni??) avremo un nuovo televisore, un nuovo telefonino, un nuovo computer e così via. 
Che le cose passino non ci disturba molto. Se però ci rendiamo conto che la stessa sorte potrebbe colpire anche noi, allora tremiamo. Ed eccoci intenti a lasciare un segno, a cercare non solo di essere notati dai contemporanei, ma anche di essere ricordati dai posteri. Abbiamo voglia di conservare la memoria di noi stessi e del nostro piccolo mondo, della comunità a cui apparteniamo, degli eventi che abbiamo vissuto, delle mode che abbiamo assecondato, di ciò che ci è appartenuto.
Fioriscono su Internet le pagine personali. Blog. Profili. Archivi fotografici. Tutto più o meno in chiave social, ossia con possibilità di scambio e condivisione. Sembrerebbe, quindi, che la memoria abbia trovato nuovi spazi, il nostro personale monumento.
Un indizio: la dimensione narrativa, che ha di necessità uno sviluppo verticale e non orizzontale, si è progressivamente imposta su quella della simultaneità. Si spiega così il passaggio compiuto da Facebook da poco più di un paio d’anni nella sua organizzazione complessiva. Le bacheche (luogo di stratificazione caotica su cui la simultaneità predomina rispetto alla cronologia) si sono trasformate in diari in cui, come in un blog, è possibile con facilità recuperare post e fotografie del passato, testimonianze cronologicamente collocate che disegnano la nostra storia personale; i post hanno perciò preso nome di eventi (caricandosi di importanza e caricandoci di responsabilità), alcuni dei quali possono essere messi in rilievo con apposita funzione; le informazioni personali, se completate, ci allineano un curriculum che, volendo, potremmo mettere sotto gli occhi di tutti.

Non è finita qui. Per festeggiare il suoi primi 10 anni Facebook ha voluto celebrare se stesso titillando proprio questo narcisismo memoriale comune tra i suoi utenti, regalando loro un video che, nella durata di un minuto e sotto le note struggenti di un pianoforte mèlo, lasciava scorrere la storia condensata di ciascuno, affastellando fotografie - alcune vecchissime, altre recenti - eventi, commenti, in una sorta di Bignami o di museo di sé. Il criterio di selezione è stato quello che ha più senso in un Social: il numero. Il numero delle interazioni. Il numero dei mi piace. Il numero (forse) delle visualizzazioni personali.
In questa sua nuova veste, la memoria diventa una mera somma e la selezione delle fonti più significativr, che è operazione fondamentale per uno storico, solo un fatto di numeri. Tra gli “eventi” importanti della nostra vita-social troviamo matrimoni, nascite, compleanni accanto a momenti apparentemente sottratti all’oblio da considerazioni demenziali che (naturalmente) abbiamo dimenticato ma che, a suo tempo, avevano mosso moltissime iterazioni, indipendentemente dalla loro pregnanza concettuale, anzi, molto spesso altrettanto ottuse (ah ah ah, iiiih, lol, cxxxxo! Bello! J  L :O e tutto il corredo di cuori e picche). Video del genere si sono ripetuti a migliaia. E ci hanno illuso. La nostra memoria individuale (parziale, deformata, idealizzata e contraddittoria) si è persa all’interno di un oceano di altrettanto parziali memorie, scomparendo e azzerandosi.
Insomma, anche se Google+, il Social firmato Google, spingendoci a compilare un profilo di presentazione, ci chiede di raccontare le nostre GESTA (?) , al più saremo (e siamo!) parte di una serie. Non lasceremo, nella quasi totalità dei casi, un monumentum aere perennius, ma informazioni che, se mai dovessero durare, non sarà possibile distinguere, recuperare, discriminare.
Perciò, se è vero che la Rete sembra moltiplicare gli archivi e le memorie, di fatto, la memoria (evito la maiuscola, ma vorrei che se ne conservasse il peso senza la retorica) si sta svuotando del suo senso più profondo, ossia lasciare un segno che possa essere ritrovato. Se, infatti, il mio segno è un punto fra milioni di migliaia di punti, la statistica mi dice che quel segno è come se non ci fosse affatto. 

In una tale moltiplicazione di dati, eccovi delle domande (che bello sarebbe leggere una pioggia di risposte!)
  • Qual è la memoria che sarà necessario conservare?
  • E quali sono i mezzi davvero efficaci?
  • E perché ancora oggi consideriamo importante questa sfida?
  • Che ruolo occupa la scuola in tutto questo e come si concilia la dimensione 2.0, tutta lanciata verso il futuro, con la tradizione e la conservazione?
  • E se è vero che si può fare storia senza la memoria, possiamo fare a meno della memoria?
È una domanda, quest’ultima, che rivolgo soprattutto agli storici di professione, agli insegnanti e agli studenti di storia, agli appassionati, ai curiosi, agli affetti da narcisismo memoriale – che temono di smemorarsi, e si smemorano quotidianamente!

Cerchiamo memorie e testimonianze di mestieri, giochi, abitudini perdute








[1] M.Gigli M.L. Marescalchi, Il laboratorio nei luoghi e con i testimoni in Didattica della Storia a cura di P. Bernardi, 2006, pp. 197-199; G. De Luna, La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo, 2004

sabato 28 giugno 2014

L'officina delle poesie

La creatività si può insegnare? Di certo non la si deve mortificare.
La Scolastica vi racconta, oggi, un'attività prodottasi in maniera del tutto estemporanea nel corso di tre ore di Italiano (Secondaria di Primo Grado) dedicate alla poesia. 
Dopo una scorpacciata di filastrocche introduttive, per evitare l'indigestione di rime baciate e onomatopee e frizzi e lazzi e burle (non proprio nelle mie corde!) ho pensato di guidare gli alunni alla composizione di una poesia senza rime. 

- Ha senso una poesia di gruppo?

-Sì, è l'anima della nostra classe, un afflato corale.
La scrittura creativa: l’officina della poesia.
Un’attività didattica particolarmente avvincente, condotta sul finire di quest’anno scolastico, è stata l’elaborazione di una poesia a più mani, in una prima media - non ci offendiamo, vero, se la chiamiamo ancora scuola media?-  con l’obiettivo di stimolare negli alunni la fantasia, la capacità espressiva, la curiosità per la lettura, focalizzando l’attenzione sulla funzione poetica della lingua. Sono state impiegate tre ore curricolari: una per la lettura espressiva di un testo d’autore, una per la stesura individuale di un componimento che costituisse una sorta di riscrittura di quello di partenza, una per la scrittura collettiva di una poesia nata dalle proposte di ciascuno.

·        Prima fase:  lettura della poesia “Le cose che fanno la domenica” di Corrado Govoni proposta dal libro di Antologia in adozione.

Le cose che fanno la domenica

L’odore caldo del pane che si cuoce dentro il forno.
Il canto del gallo nel pollaio.
Il gorgheggio dei canarini alle finestre.
L’urto dei secchi contro il pozzo e il cigolìo della puleggia.
La biancheria distesa nel prato.
Il sole sulle soglie.
La tovaglia nuova nella tavola.
Gli specchi nelle camere.
I fiori nei bicchieri.
Il girovago che fa piangere la sua armonica.
Il grido dello spazzacamino.
L’elemosina.
La neve.
Il canale gelato.
Il suono delle campane.
Le donne vestite di nero.
Le comunicanti.
Il suono bianco e nero del pianoforte.
Le suore bianche bendate come ferite.
I preti neri.
I ricoverati grigi.
L’azzurro del cielo sereno.
Le passeggiate degli amanti.
Le passeggiate dei malati.
Lo stormire degli alberi.
I gatti bianchi contro i vetri.
Il prillare delle rosse ventarole.
Lo sbattere delle finestre e delle porte.
Le bucce d’oro degli aranci sul selciato.
I bambini che giuocano nei viali al cerchio.
Le fontane aperte nei giardini.
Gli aquiloni librati sulle case.
I soldati che fanno la manovra azzurra.
I cavalli che scalpitano sulle pietre.
Le fanciulle che vendono le viole.
Il pavone che apre la ruota sopra la scalèa rossa.
Le colombe che tubano sul tetto.
I mandorli fioriti nel convento.
Gli oleandri rosei nei vestibuli.
Le tendine bianche che si muovono al vento.

Il componimento è un esempio di poesia semplice, organizzata come un inventario di cose e percezioni, con versi liberi e immagini tratte dall'esperienza quotidiana impreziosite da metafore più ricercate. Il lessico è quasi sempre adeguato al lessico medio degli alunni, con l'eccezione di alcuni vocaboli (scalea, vestibuli, ecc) che, tuttavia, sono chiariti in nota o a cui può rimediare il dizionario vivente -  l’insegnante.
La prima lettura è stata assegnata a un alunno con difficoltà nell’esecuzione del compito. La seconda, a un altro alunno con carenze dello stesso tipo, dovute però soprattutto alla timidezza. Quindi ci siamo fermati a riflettere sulla struttura del testo: una giustapposizione di frasi spesso solo nominali, di sequenze sostantivo +aggettivo o sostantivo + proposizione relativa breve o sotantivo+aggettivo+ specificazione (o determinazione di luogo). Poi ho richiamato l’attenzione sulla metrica, del tutto libera, sui suoni, invitando i ragazzi a individuare suoni ricorrenti (gli olenadri rosei nei vestibuli) e a evidenziarli con matite colorate. Attenzione: questa ricerca servirà poi, per favorire la lettura espressiva!
In ultimo, ho domandato agli alunni di individuare tra le immagini proposte quelle che si avvicinavano alla rappresentazione della propria domenica, al proprio vissuto, reputando fondamentale confrontare un testo con l’esperienza di ciascuno in un’ottica interpretativa di attualizzazione. Dare senso al testo è un’operazione di necessario avvicinamento a sé, teso a superare barriere cronologiche, culturali, lessicali: lavoriamo perché la classe diventi davvero una comunità ermeneutica, per dirla come Luperini! Molte immagini domenicali erano comuni a tutti (la tovaglia nuova sulla tavola, il suono delle campane…) sebbene non scontate, altre solo a pochi, altre a nessuno, segno che la poesia ci portava indietro nel tempo o ci metteva di fronte a sentimenti, osservazioni, percezioni più “difficili”, perlomeno nell’espressione.
Quando ho ritenuto la classe matura per una lettura espressiva, ho sbriciolato il testo assegnando a ogni alunno la lettura di un verso. La lettura doveva procedere mantenendo un ritmo sostenuto e l’alternanza di voci dei diversi alunni. La prima prova: un disastro. O meglio la cantilena delle litanie, come gli stessi ragazzi hanno notato ridacchiando: “E che è, il rosario??”. Questo avrei dovuto dirlo io, ma ho preferito dar loro fiducia. Il tono era monotono, le voci spesso soffocate dalla timidezza o in ritardo con gli attacchi: c’era bisogno di indicazioni più precise! Ho chiesto a ciascuno di interpretare il proprio verso caricando la voce, deformandola, se necessario, dove si individuavano suoni ricorrenti (so che si chiamano allitterazioni, ma i miei alunni ancora no) sussurrando, bisbigliando, cantando, utilizzando cioè tutta la gamma enfatica a disposizione. Esempio: innalzare il tono della voce in presenza delle I - e un alunno, con la sua vocina ancora infantile, mi ha preso alla lettera producendo ultrasuoni. Povere corde vocali! Rendere le O roboanti come tuoni. Le R vibranti, le N e le M quasi cantate. E così via.
Dopo altri due tentativi (uno sporcato dalle risate, il secondo con più concentrazione) il mosaico di voci ha prodotto una performance da pelle d’oca. In particolare, si sono distinti alcuni alunni, F.S., S.L. e C.C., capaci di concentrarsi e non solo di adattare le sfumature della voce al contenuto del testo, ma anche al ritmo d’insieme, al tono generale della lettura. La campanella è suonata e c’era molta delusione in giro. Avevano adocchiato altre poesie e pretendevano di leggerle con la stessa tecnica.
Questa prima fase si può espandere e migliorare aggiungendo rumori e suoni prodotti con strumenti improvvisati o facili da reperire .

·        Seconda fase:  ai ragazzi è stato chiesto di riscrivere la poesia, rispettandone lo schema, ma modificandone il tema. Tre le opzioni: “ Le cose che fanno la festa”, “Le cose che fanno il mare” “Le cose che fanno l’amicizia”. L’esperienza della riscrittura ha dietro di sé già una corposa letteratura. Oltre che recentissime esperienze sul web, pensate proprio a fini didattici (TwSposi, per esempio, la riscrittura dei Promessi Sposi su Twitter). La ricaduta didattica è buona in termini di coinvolgimento emotivo e partecipazione.
Sulla base degli esiti, la classe si poteva suddividere in tre fasce: un gruppo numeroso che ha rispettato la consegna scrivendo elaborati creativi oltre che corretti; un altro, più piccolo, che ha scritto una poesia sul tema dato, ma non si è attenuto allo schema fisso; tre alunni che non sono riusciti a scrivere in autonomia e che hanno richiesto il sostegno dell’insegnante. Letti e corretti tutti i lavori, è emerso che predominava il tema del mare e che tutti gli elaborati, compresi quelli molto buoni, presentavano le stesse immagini (onde, conchiglie, ombrelloni, sabbia) e un’aggettivazione ricorrente. 
Lo step successivo sarebbe stato tutto rivolto all’arricchimento lessicale e alla ricerca di un potenziamento espressivo della lingua utilizzata. Praticamente, avrei portato gli alunni a misurare lo scarto tra la lingua standard, propria della comunicazione ordinaria, e quella poetica, concetti studiati sul libro di testo ma bisognosi di una ricaduta esperienziale per essere davvero appresi.

·        Terza fase:  ho scelto, come punto di partenza, la poesia sul mare di A. S., un componimento corretto nella struttura, ma estremamente semplice nella scelta lessicale e nella ricerca delle immagini. Ne ho scritto il primo verso alla lavagna invitando tutti gli alunni a fare lo stesso sul quaderno: il mare blu. Ho proposto ai ragazzi di cercare sinonimi e iponimi del mare, sinonimi di blu e una similitudine per arricchire l’espressione. Sette o otto le proposte, di qualità e originalità diversa. Ho assegnato a M.V.C. il compito di segnare sul foglio le varie proposte che sarebbero state poi messe ai voti fra i compagni, in modo da accogliere nella poesia in fieri  solo la frase che più ci convinceva.
Risultato: “ le onde azzurre come gli occhi del cielo”, su idea di A. F., un alunno solitamente timido, con qualche difficoltà nella lettura, che, di fatto, si sarebbe rivelato il poeta preferito dai compagni, capace di originalità e chiarezza oltre che di una propensione all’astratto (es. “l’immenso”, “profumo di libertà”).
Nella votazione il parere dell’insegnante era dato alla fine, per non influenzare la classe, e valeva doppio essendo un punto di vista “esperto”. In fase di proposta però, mi riservavo anche di scartare quelle frasi scorrette sintatticamente o logicamente (es. la salsedine che vola fino alle nuvole) e di proporre cambiamenti nella scelta di un lemma se questo era stato già usato in un verso precedente. Indicazione, quest’ultima, che è stata immediatamente fatta propria dagli alunni i quali, da un certo momento in poi, autonomamente riuscivano a correggere i compagni in presenza di una ripetizione. L’esercizio è stato una buona palestra per mettere in funzione il vocabolario passivo, per tirare fuori dalla mente parole troppo pigre e perciò poco utilizzate.
Verso dopo verso, votazione dopo votazione è nato “Mare Nostrum”, il nome che A. F. ha proposto come alternativa al più prosaico “Il mare secondo la I F”, spiazzando tutti, me per prima. Il titolo, che non tutti gli alunni comprendevano, è stato poi spiegato dallo stesso compagno e quindi accettato dalla maggioranza. Nonostante alcune ridondanze concettuali e la ripetizione senza variazioni dello schema “sostantivo + relativa”, l’esito complessivo può ritenersi più buono. Votare le proposte dei singoli alunni ha introdotto una pratica democratica in un contesto inconsueto e ha spinto ogni alunno a sforzarsi di migliorare la proposta in modo da farla risultare vincente.
In futuro, si lavorerà sulla variazione dello schema poetico di partenza. Si cercherà una poesia con una struttura più complessa da smontare e rimontare. Perché se è vero che per scrivere ci vuole l’ispirazione, è ancor più vero che la Musa ci fa marameo se non sappiamo giocare con le parole, se non sappiamo dove pescarle, come selezionarle, incastrarle, scomporle, amplificarle, smorzarle, variarle, strizzarle… amarle.
Maggio era maturo e da più parti si cominciava a sentire un impellente bisogno d'estate

domenica 22 giugno 2014

Il diario di bordo: dall'accoglienza alla scrittura autobiografica

La Scolastica vi racconta un'esperienza didattica positiva: le piacerebbe poterla confrontare con altre simili.
Il diario di bordo: raccontare le esperienze e dare senso al proprio vissuto


Nella lunga introduzione delle più recenti Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo di studi si legge: “È importante valorizzare simbolicamente i momenti di passaggio che segnano le tappe principali di apprendimento e di crescita di ogni studente”.
Un momento di passaggio per eccellenza è l’inizio di un nuovo corso di studi. L’ingresso nella scuola secondaria è accompagnato da sentimenti contrastanti: nostalgia e impazienza, entusiasmo e paura. C’è la voglia di abbracciare il nuovo e di crescere in fretta, ma anche un forte attaccamento ai vecchi compagni che non si vorrebbe perdere di vista ma che, di fatto, si avviano a percorrere strade differenti. Con un piede ancora nell’infanzia e uno proteso verso una inquieta pre-adolescenza: così si presentano gli alunni alle soglie di quella che un tempo si chiamava prima media. 

Voglio qui condividere un’esperienza didattica assai positiva e stimolante organizzata nella mia scuola, l’I. C. Aosta di Martina Franca (TA). 

Allo scopo di celebrare e accompagnare l’inizio di un nuovo corso di studi è nata l’Unità di Apprendimento sull’Accoglienza: un insieme di attività che ha coinvolto, nelle prime settimane dell’anno, tutti i docenti di tutte le discipline con lo scopo di favorire l’inserimento dei ragazzi di prima nel nuovo contesto scolastico. Si è cercato di condurre gli alunni alla scoperta della scuola, dei compagni, dei docenti favorendo il superamento di quelle ansie e di quelle paure che molti manifestavano. 
Scriveva M.V.C. di I F, per esempio: “Il mio primo giorno di scuola è stato caratterizzato dal terrore! E anche se c’era il sole e faceva caldo, le mie mani e i miei piedi erano freddi. Pensavo ai miei nuovi professori e alla mia nuova classe: mi sarebbero piaciuti? Sarei potuta scappare e tornare a casa? Fortunatamente è andato tutto bene perché i professori sono buoni e pazienti e piuttosto giovani. I miei amici di classe sono simpatici e tranquilli e la Dirigente…sorride!! Tutte le mie paure sono sparite e trasformate in felicità!!”
Tali attività hanno permesso la realizzazione di un prodotto finale, un diario di bordo, che è stato presentato nel corso dell’Open Day da alcuni di quegli stessi alunni che lo avevano realizzato. Il diario di bordo ha raccolto le testimonianze di tutte le esperienze vissute dagli studenti nei primi giorni di scuola.  Sono stati mescolati diversi approcci, in modo da favorire i diversi stili cognitivi e stimolare le “intelligenze multiple” senza privilegiare, come si fa in un modello didattico tradizionale, solo quella logico-verbale.

Le fotografie scattate hanno arricchito sia il diario sia i cartelloni esposti in tutte le prime classi e nei corridoi, costituendo un vero e proprio reportage della vita scolastica nelle prime due settimane, oggi a disposizione dell’archivio scolastico. In particolare, le fotografie hanno rappresentato, non solo una puntuale testimonianza delle attività, ma anche la prova immediata dei cambiamenti occorsi nei ragazzi, mese dopo mese, con la loro naturale crescita: di quei bambini spaesati e un po’ goffi, impegnati a scrutarci con gli occhi sgranati e gli astucci che scoppiavano di penne colorate restavano, a fine anno, soltanto quelle immagini attaccate al muro, di fatto, però, in aula con noi docenti, già facevano capolino stuoli di quasi-adolescenti, perfetti padroni della vita di classe.
Fra le tre forme possibili di diario di bordo (cartellone su cui appuntare impressioni e sentimenti confusamente, presentazione in Power Point e quaderno creativo) per i miei studenti ho scelto il quaderno perché avrebbe permesso agli alunni di iniziare a familiarizzare con la scrittura autobiografica, senza rinunciare alla creatività. Immaginavo, infatti, un quaderno colorato, pieno di disegni e decorazioni, che rappresentasse l’anima, il carattere della classe.
Il racconto di sé e del proprio vissuto rappresenta un momento altamente formativo, perché spinge gli alunni a riflettere sulle proprie esperienze, a prendere coscienza dei sentimenti e a cercare parole adeguate per comunicarli. Cercare e dare un senso a ciò che si fa non è solo l’obiettivo principe di una simile proposta didattica, ma dell’intero percorso educativo.

Il quaderno prodotto racconta con immagini, disegni e brevi testi parte delle attività di accoglienza. E somiglia straordinariamente alla mia classe. È colorato, un po’ disordinato, decisamente allegro, molto pop nelle sue scelte grafiche. Sin da subito, infatti, è emerso che ai 20 alunni con cui avrei lottato quotidianamente per otto ore settimanali piacevano i colori, senza particolare scrupolo nell’abbinamento, i disegni caotici, gli smile che hanno letteralmente invaso la copertina del quaderno, in luogo dei fiorellini e delle volute in tonalità pastello che io mi immaginavo.
L’aspetto definitivo del diario ricorda i murales pieni di figure e scritte che si vedono nelle grandi città: per capirci qualcosa bisogna essere nella testa di ciascuno dei disegnatori che lo hanno realizzato. A qualcuno potrebbe sembrare un grande pasticcio, secondo noi, invece, è indiscutibilmente un capolavoro. Lo è perché riflette la fantasia senza briglie degli studenti, il loro impegno, la collaborazione, il senso di appartenenza alla classe e alla scuola in cui sono stati accolti.
Per ciascuna delle attività svolte in classe e all’aperto, gli alunni hanno scritto, sui loro quaderni personali, piccole cronache, pagine di diario. Hanno scattato e incollato delle fotografie. Qualcuno ha disegnato i momenti più belli. Alla fine, c’era così tanto materiale che non sapevamo come esporlo. Il quaderno creativo è stato necessariamente un riassunto, un “concentrato” delle esperienze realizzate. Tutti gli alunni vi hanno contribuito lasciando un piccolo segno di sé. Se poteste sfogliarlo, vedreste  le loro differenti grafie, piccoli reperti raccolti qui e là, disegni belli e brutti e…fili di lana! L’origine di quest’ultimo elemento, insolito all’apparenza, è da ricercarsi in un gioco che ha coinvolto i ragazzi il primo giorno, allo scopo di catalizzare la loro reciproca conoscenza.
Gli alunni, lanciandosi reciprocamente il gomitolo, dovevano presentarsi ai compagni mantenendo un lembo di filo, alla fine si sarebbe formata una rete: la rete dell’amicizia.

Il gioco del gomitolo: approccio ludico della prima accoglienza

 Il gioco del gomitolo. Dall’esperienza al racconto.
Descrivo qui di seguito le diverse fasi del gioco del gomitolo.
·        Ho iniziato lanciando il gomitolo a S., la ragazza disabile, cui ho chiesto se le piacesse la nuova scuola. Nonostante evidenti difficoltà di parola, la risposta è stata affermativa e un bel sorriso la ha suggellata. Ho poi invitato la stessa S. a lanciare il gomitolo a un altro compagno mantenendo un lembo di filo tra le mani: la compagna di banco ha guidato S. nel lancio e le ha spiegato il compito. Il gomitolo è stato lanciato a una ragazza della fila posteriore cui S. ha chiesto se le volesse bene. Risposta affermativa, suggellata da sorriso e carezza. Ho reputato importante far partire la rete da S. e coinvolgerla nella stessa attività dei compagni, in modo da superare le diffidenze che nuova scuola e nuovi compagni avrebbero potuto suscitare in lei. Lancio dopo lancio, presentazione dopo presentazione, si è formata una rete intricatissima.
·        Quando tutti hanno avuto in mano un pezzo del filo rosso ho richiamato la loro attenzione sull’intreccio creatosi, insistendo sulla metafora della rete dei rapporti umani.
·        Ogni alunno aveva il compito di memorizzare quale fosse il compagno da cui aveva ricevuto il filo e quale quello a cui lo avesse lanciato. Così è stato possibile riprodurre la medesima rete in un cartellone su cui sono stati disegnati dei cerchi con i nomi di tutti i membri della classe, comprese le due professoresse coinvolte nella rete e nel gioco di domanda e risposta. Lo stesso filo che poco prima aveva unito i polsi degli alunni, da quel momento in poi avrebbe unito i cerchi rossi che riproducevano un modello stilizzato di I F.
·        A casa, gli alunni hanno raccontato in pagine di diario l’esperienza vissuta in classe. Il giorno seguente è stata data lettura di tutti gli elaborati ed è emerso che gli studenti avevano tratteggiato con occhi e sensibilità diverse la medesima attività. Ho raccolto i passaggi più belli dei racconti di ciascuno e li ho disposti sul diario di bordo, a mo’ di collage.
È stato emozionante vedere la rete nel suo progressivo costituirsi. Sembrava quasi di poter toccare con mano una metafora, vederla dipanarsi nella sua concretezza. L’entusiasmo degli alunni era contagioso e la sensazione che si provava era davvero quella di chi si fa spettatore di nuovi legami in costruzione. Una sorta di cantiere delle relazioni, all’opera. Ancor più bello è stato analizzare a freddo l’esperienza, ascoltando le piccole cronache elaborate dagli alunni. 

Secondo me questa rete dell’amicizia è stata un trucco per conoscerci meglio, anche perché staremo insieme i tre anni delle scuole medie. La giornata è stata favolosa e vorrei riviverla.” scrive A.M. “Mi sono divertita tanto perché ho avuto modo di conoscere alcune cose dei miei nuovi compagni e della professoressa. Spero di trovarmi bene con loro” F.S. “Dovevamo fare una domanda a un amico lanciandogli il gomitolo. Io ho risposto alla domanda di Angelica che mi ha chiesto chi fosse la mia professoressa preferita e io ho risposto che è la N. Successivamente ho domandato a Francesca quale fosse la sua materia preferita e lei ha detto che è il francese” scrive P.S.

L’attività è perfettamente riuscita. La veste ludica ha stimolato la partecipazione di tutti. Sebbene domande e risposte fossero spesso ripetitive e non approfondite, di fatto, mi è stato possibile intravedere un quadro d’insieme degli alunni, scorgere atteggiamenti, comportamenti - i più timidi, i più spavaldi- individuare gli alunni con una maggiore proprietà di linguaggio, quelli più originali, quelli più razionali. Gli aspetti che maggiormente hanno suscitato curiosità da parte dei compagni riguardavano la sfera del presente (cosa ti piace, qual è la tua materia preferita, quali sono i tuoi hobby ecc). Nelle domande scambiatisi reciprocamente si evidenziava la totale mancanza di interesse nei confronti del passato. Nel complesso, non si sono registrati comportamenti di disturbo, il livello di attenzione è sempre stato alto, così come l’interesse autentico nei confronti dei compagni: lo attestavano le diverse richieste di chiarimento o precisazione che erano rivolte, ogni tanto, a seguito della presentazione incompleta o piuttosto confusa di qualcuno.

Ricordi d’estate: l’ascolto di una canzone
“Caro diario, Venerdì a scuola, nell’aula multimediale, abbiamo ascoltato la canzone di Jovanotti che si intitola “ESTATE”. Jovanotti in questa canzone descrive la sua estate, le cose che ha fatto e le emozioni in questa stagione. Nell’ascoltarlo ho provato emozioni non ho mai provato prima e mi sono tornate in mente tutte le cose belle che ho fatto qualche mese fa. Appena tornato a casa, ho provato una certa nostalgia perché dovevo aspettare un altro anno per tuffarmi di nuovo nel mare!” così scrive A. S., un alunno che durante l’attività di ascolto aveva cantato a squarciagola, incurante della timidezza che di solito lo contraddistingue.
"Sento il mare dentro una conchiglia, estate...l'eternità è un battito di ciglia" Estate, Jovanotti

L’attività di ascolto è stata seguita da un test molto agile il cui scopo era spingere gli alunni a interrogarsi sul significato della canzone, guidandoli alla scoperta e all’interpretazione delle numerose metafore presenti. Si è potuto notare che molti di loro tendevano a sovrapporre al testo della canzone i propri sentimenti e le proprie considerazioni sull’estate, non sempre rispettando l’intento dell’autore. In ogni caso, proprio i fraintendimenti dimostravano che l’attività proposta intersecava il loro vissuto, toccava il loro bagaglio emozionale e perciò serviva come stimolo alla riflessione sui ricordi dell’estate appena trascorsa. La ricostruzione e la rielaborazione del passato è avvenuta attraverso la raccolta di oggetti che testimoniavano le loro vacanze: conchiglie, fotografie, foglie, braccialetti di stoffa di quelli che si comprano in spiaggia, cartoline… È stato un primo approccio alla storia, all’uso consapevole delle fonti per la ricostruzione del passato. Sul diario di bordo sono confluiti alcuni di questi oggetti. Il testo della canzone è stato figurato attraverso immagini disegnate o incollate, rappresentative dei concetti-chiave individuati nel testo.

L’escursione in masseria
Il giorno 9/10/2013 io, con la mia classe, sono andata a visitare la Masseria Galeone, appartenente al corpo forestale. Ci ha accompagnato una guardia forestale che ci ha insegnato come si sta a cavallo, come si galoppa e come si marcia.” A. M. “ Si tratta di un enorme casolare risalente al diciottesimo secolo, è una costruzione antica però ben tenuta. Mi ha colpito moltissimo il tetto costruito con pietre grigie e il fantastico prato inglese” E. L. “Marciando, marciando finalmente arriviamo ai cavalli ed io ero strafelice perché in vita mia non avevo mai visto un cavallo così da vicino e così bello! Erano neri e lucidi!” M.V.C. “Dopo la colazione siamo andati nelle scuderie con tanti cavalli che si agitavano e battevano i piedi” S. L. “Infine un’altra cosa bellissima: il signore ci ha fatto un regalo. Siamo andati sull’erba e abbiamo respirato facendo entrare nei polmoni l’aria pura da portare nella città inquinata dalle auto” M.F. “E’ stato interessante misurare la circonferenza di un fragno [grande quercia], ma avrei preferito qualcosa di più divertente come per esempio una gita al mare. Ora ti saluto, ci vediamo presto!”

Masseria Galeone, patrimonio del Corpo Forestale dello Stato
Martina Franca (TA)

Con questo collage di considerazioni estrapolate dal diario di bordo, si presenta l’escursione all’aperto organizzata in conclusione all’U.A. sull’accoglienza. Un’immersione nella flora e nella fauna del nostro territorio e al contempo un’occasione unica per cementare le nuove amicizie, le relazioni ancora in boccio. I commenti entusiasti di quasi tutti gli alunni esprimono bene l’indice di gradimento della giornata, immortalata dalle fotografie scattate e raccolte sia sul diario di bordo sia su cartelloni.

 La presentazione del diario di bordo all’Open Day.
Nel corso di una delle tre giornate previste per l’Open Day, sei alunni hanno presentato il diario di bordo ai genitori dei futuri iscritti in visita alla scuola. La relazione era divisa in sei parti, una per ciascun alunno. Si trattava di una sorta di canovaccio che gli alunni dovevano tenere presente, senza tuttavia imparare le battute a memoria, in modo da non creare l’effetto innaturale di cantilene e “pappardelle”. Benché fossero alla loro prima esperienza di esposizione in pubblico e nonostante la timidezza degli esordi, alla fine si sono dimostrati tutti e sei dei perfetti ciceroni, che aspettavano con ansia l’arrivo di nuovi gruppi di genitori, cui mostrare con malcelato orgoglio il proprio lavoro. Circa un’ora è stata dedicata alla cura della performance, con attenzione alla postura, alla mimica e al tono della voce.
Tale degna conclusione ha sancito ai miei occhi il raggiungimento della prima importante tappa nel lento processo di maturazione di quelle competenze sociali e civiche a cui le attività di accoglienza hanno dato la stura, contribuendo a perfezionare la comunicazione adattandola ai diversi contesti.
Un bilancio sulle attività di accoglienza
Il racconto è il veicolo privilegiato attraverso cui si attua l’educazione. Di generazione, in generazione sono stati trasmessi valori, codici, informazioni, tutto ciò che la collettività riteneva fondamentale conservare. La narrazione è, dunque, una straordinaria risorsa pedagogica. In particolare, la scrittura autobiografica si presenta come uno strumento adatto alla esplicitazione e alla costruzione del proprio Sé, perché spinge l’individuo a dare senso al proprio vissuto, ad interpretarlo, a migliorare il proprio rapporto col mondo misterioso della propria interiorità. Per questo il diario di bordo è stato una grande risorsa nella sfida dell’autoformazione[1].
Complessivamente non sono stati individuati elementi negativi, se non la differente qualità degli elaborati e dei contributi, valutati attraverso il monitoraggio in itinere e l’analisi dei singoli componimenti scritti. Le attività di accoglienza nel loro insieme hanno contribuito a una educazione globale, una educazione alla relazione e al saper essere. Il diario ha guidato gli alunni a scavare nel profondo scoprendo le proprie paure, le incertezze, i bisogni e indicando assai spesso sentieri insperati di crescita e superamento dei limiti.

L'autobiografia: l'ora delle storie
La prassi del racconto di sé è continuata durante l’anno. Ho dedicato ad essa l’ora di approfondimento di Italiano. Gli studenti hanno avuto modo di raccontare aneddoti, sogni, paure, esperienze dolorose, successi, prove superate, di esprimere i sentimenti provati in alcuni momenti importanti dell’anno scolastico, di parlare dei propri affetti, di affrontare temi importanti a partire dal proprio vissuto (il bullismo, la pervasività delle tecnologie, il conformismo, l’anticonformismo e la devianza).

Conclusioni (provvisorie)
Il progetto di scrittura autobiografica si è concluso il penultimo venerdì di maggio con la compilazione e la raccolta delle schede di gradimento da parte degli studenti. Tutti gli alunni dichiarano di essere stati sorpresi dall’attività svolta e di averla gradita moltissimo perché: “ci ha permesso di parlare di noi stessi e di scoprire le nostre emozioni”, solo uno studente dichiara di averla trovata difficile perché “si scrive troppo” preferendo di fatto i momenti di racconto orale. Il 60% afferma di aver trovato nell’insegnate un supporto, un aiuto a esprimere correttamente le proprie emozioni; il 20% dice di non esser riuscito a raccontare quanto avrebbe voluto, il 7% dichiara di non aver trovato alcuna difficoltà nel parlare di sé, gli altri non rispondono.
L’ora dedicata alla scrittura autobiografica è stata indispensabile, perché ha permesso all’insegnante di lavorare su due fronti: l’espressione di sé e l’ascolto degli altri, aspetto quest’ultimo che si è rivelato assai complesso. Raccontare, cioè costruire la propria storia, ha trasformato l’alunno in soggetto, in attore protagonista del percorso da esplorare. Ascoltare le “storie” degli altri, invece, non sempre è stato facile per tutti. Un forte egocentrismo spingeva i più a richiedere attenzione solo su loro stessi, di fatto ignorando quanto gli altri avessero da raccontare: alcuni ragazzi sono stati richiamati spesso perché non rispettavano i turni di parola o si distraevano quando gli altri leggevano i propri lavori. Gradualmente questo difetto è stato limitato, attraverso veri e propri esercizi di ascolto che spingevano tutti gli alunni a ri-raccontare le storie dei compagni o a riutilizzarle variamente. La valutazione degli elaborati di volta in volta prodotti ha dimostrato un arricchimento del lessico delle relazioni e dei sentimenti  e una capacità sempre crescente di mettersi in gioco con sincerità. 
Col tempo sono stati limitati i luoghi comuni e le espressioni gergali ricorrenti, indice di una superficiale capacità di riflettere sui diversi episodi della vita, e si è evidenziata una più originale “lingua del cuore” che ha toccato i diversi aspetti della propria quotidianità. Molti temi sono stati affrontati in una veste, a volte ludica, a volte seria, a volte “scolastica” È stata sempre rispettata la volontà di alcuni alunni di non leggere davanti all’intera classe alcuni elaborati o certe pagine di diario. 
In due momenti distinti dell’anno gli alunni hanno lavorato con una psicologa che ha catalizzato il processo di analisi dei sentimenti e delle relazioni tra i diversi membri della classe contribuendo a rafforzare il concetto di gruppo e a migliorare la collaborazione. Tale attività ha avuto un portato significativo anche nell’ora di scrittura e di racconto di sé, perché ha contribuito al superamento di quel narcisismo che, all’inizio, rendeva ciascuno studente piuttosto disinteressato nei confronti dei compagni.






[1]D. Demetrio E. Biffi, Narrazione in Voci della Scuola. Le parole chiave della scuola che cambia X

venerdì 20 giugno 2014

L'anno di prova.

Non sono ancora una docente di ruolo. Sono in prova. Se non funziono mi buttano via, e con me i miei sette anni di precariato, il pendolarismo, treni autobus benzina, la galleria dei volti, centinaia di studenti che ho accompagnato agli Esami di Stato e riportato sani e salvi a casa dopo gli agghiaccianti viaggi d'istruzione della primavera scolastica. Un'avventura in cui sono entrata da adolescente in ritardo qual ero e da cui sono uscita il primo Settembre scorso, quando il Ministero mi ha concesso il Posto Fisso, agognato traguardo piccolo-borghese che mi arruola, finalmente, nei ranghi della docenza stabile, sottopagata, querula e -a detta di tutti- privilegiata.
Certo, c'è l'anno di prova. E Venerdì 27 sarò giudicata. In attesa del verdetto, con un piede ancora sul baratro di quella precarietà che nemmeno un contratto a tempo indeterminato riuscirà tanto presto a scucirmi di dosso, pubblico la premessa alla mia relazione finale.
Nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere un resoconto formale ma, come al solito, sbagliando registro, eludendo la traccia-le aspettative-il senno l'ho trasformata in un rigurgito autobiografico grondante narcisismo, e tuttavia autentico, perché non so copiare e non voglio -non l'ho mai fatto nemmeno a scuola.
Non è mia intenzione fare di questo blog un diario personale, sia chiaro, non sempre almeno. Si consideri questo post la mia presentazione, qualche parola per dirvi chi sono. Poi ci sarà solo la Scolatica, non la severa e rigorosa filosofia medievale, ma il rutilante mondo della scuola 2.0.
Bene, e ora bacchettatemi pure.

Jan Steen, A scuola

"Una relazione finale è sempre un bilancio. Si soppesano successi e sconfitte, si raccolgono cocci e allori. E quand’anche piccoli rimpianti e diffuse stanchezze offuschino per un attimo gli obiettivi raggiunti, resta sempre una soddisfazione grande alla fine di tutto, un senso di pienezza che è dato dalla conclusione, dalla costruzione innalzata a fatica che ci soddisfa e inorgoglisce, dal traguardo che è segno indiscutibile di vittoria, malgrado prove e inevitabili errori. Nella vita di ogni insegnante la fine  dell’anno scolastico è così, è la tappa raggiunta, un punto fermo, una sorta di maturazione che, come ben sa il corridore di una staffetta, non può dirsi mai del tutto esaurita, mai definitiva. 
L’insegnate non smette di formarsi, non conclude. Non smette di mettersi in discussione. Non cessa di ridisegnarsi e ridisegnare le proprie convinzioni. Raggiunge una meta e già si prepara alla successiva.
Quando ho sentito per la prima volta che questo sarebbe stato un anno di formazione ho corrugato la fronte. Supponenza e pigrizia ci fanno pensare che sia superfluo seguire corsi di aggiornamento; pressapochismo e faciloneria suggeriscono che, in fondo, basti un po’ di esperienza in campo; il sentito di dire, la communis opinio danno poi il colpo di grazia: nella scuola tutto cambia (etichette, parole, slogan, paradigmi) perché tutto resti uguale, quindi sembra inutile studiare l’ennesima circolare ministeriale o le nuove indicazioni o quanto la solerte e prolifica inventiva del Ministero abbia diffuso. Poi però si entra in classe e ci si misura col multiforme, complesso, affascinante mondo delle nuove generazioni, ci si immerge in una sfida che non si può sottovalutare perché composta di problemi e di urgenze fatte di carne e sogni, di occhi e mani, di intelligenze e paure, e ci si ritrova sprovvisti di adeguato equipaggiamento. Allora sì, che nel profondo, si matura un bisogno autentico di formazione e la si cerca. Questa è pure la mia storia.
Non basterà un anno di formazione. Chi mi ha preceduto lo sa. 
Insegnando non si cessa mai di imparare e si impara a tutto campo: dai dirigenti, dai colleghi, dai collaboratori, dalle piattaforme, dai documenti ufficiali, dalle riviste specializzate, dalle famiglie, dalla Rete, forse anche dai pranzi improvvisati tra colleghi, in attesa di un collegio o di un incontro di dipartimento. Soprattutto, però, si impara dagli studenti. Dall’alunno che fischia quando tu parli e fischia più forte quando tu più forte urli, all’alunno che marcia trionfalmente nei corridoi mentre cerchi perentoriamente di indurlo a rientrare; dall’alunna preoccupata per un brufolo sulla fronte che si regge un ciuffo di capelli con le mani per coprire il bozzo mentre tu la interroghi sui mari d’Europa e lei resta in equilibrio precario e disperato tra due emergenze altrettanto allarmanti, all’alunno che smanetta con il tablet alla velocità della luce e ti insegna come avviare in fretta un programma sulla LIM; dall’alunno che alza la mano e ti fa la domanda intelligente che aspettavi da giorni, all’alunno che alza la mano e ti fa la domanda geniale che ti spiazza - e ti commuove.

A tutto questo non ero pronta. Ho assorbito come una spugna ciò che  l’anno di prova mi ha offerto. Un bagno di umiltà, un' apertura all'accoglienza senza sconti, un esame che è facilissimo fallire"