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Nottola di Minerva o gufo anti-sfiga? La Scolastica, nel suo bagaglio, se li porta entrambi.

lunedì 7 luglio 2014

L'Italiano inamidato che si apprende a scuola



  Lo scorso autunno ho acquistato “La lingua batte dove il dente duole” (ed. Laterza, Novembre 2013, euro 14,00). Si tratta un vivacissimo dialogo tra Andrea Camilleri e Tullio De Mauro sulla forza espressiva del dialetto, sullo stato di salute dell’Italiano, sul cattivo uso delle parole da parte dei mezzi di comunicazione di massa (- sempre loro, sigh!)
Fra i numerosi spunti che ho ritenuto interessanti, voglio condividere con voi alcune riflessioni scaturite, soprattutto, dalla lettura del terzo capitolo, in cui i due autori si interrogano sul ruolo della scuola nell’insegnamento dell’Italiano e sul progressivo impoverimento del dialetto, privo ormai di una cultura tradizionale da cui mutuare lemmi, espressioni, proverbi.
Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta
 (Don Milani)
Premetto che non sono mai stata un’appassionata di dialetto locale, sia perché appartengo a una generazione che non lo ha conosciuto in salute e che è oggi incapace di parlarlo, di pronunciarlo bene o, spesso, persino di comprenderlo, sia perché lo ritengo una barriera culturale per quanti non hanno avuto e non avranno la formazione di Camilleri e potrebbero utilizzarlo come forma esclusiva di comunicazione. Premetto che il mio apprendimento dell’Italiano è stato, comunque, spesso rallentato dai vezzi e dalle abitudini linguistiche regionali che fioccano di intercalari, di ridondanze, di modi di dire presi in prestito dal dialetto ma che dialetto, in senso stretto, non sono perché diffusi in una versione tradotta, italianizzata. Premetto, inoltre, che nella mia comunicazione quotidiana, compresa quella formale di docente in cattedra, una buona parte del messaggio da veicolare è affidato ai gesti e a una generosa mimica facciale. Premetto, infine, che da adolescente, pur studiando in un liceo classico, disponevo di un mio personale vocabolario privato che spesso annoverava interiezioni e imprecazioni non canonizzate da alcuno zingarelli, e spesso tuttora affioranti quando parlo.
Per tutte queste ragioni, leggendo le considerazioni di Camilleri e De Mauro sulla battaglia contro il dialetto da parte della scuola, mi sono sentita chiamata in causa, anche perché, quest’anno, per la prima volta, ho insegnato formalmente grammatica a studenti in età dell’obbligo, dedicando tre ore settimanali alla riflessione sulla lingua, all’apprendimento delle sue strutture, alla correzione di esercizi perfettamente corrispondenti al segmento linguistico in esame.
 Il titolo del capitolo incriminato, Un italiano in cui non si dice mai “dare” , è già una bella scossa! Si allude, infatti, all’italiano stantio che, poco dopo, De Mauro definirà inamidato, cioè tirato a lucido e rigido. L’italiano della scuola, insomma. Quello dei manuali di grammatica che scoppiano di esempi garbati oltre che corretti, quello delle correzioni puntualmente apportate da noi docenti ai temi degli alunni, quando deragliano dal binario della lingua standard plus - mio conio, questo, che sta ad indicare la versione ancor più ingrigita e cristallizzata dell’italiano standard. Insomma, una sorta di lingua morta, inesistente nella realtà e, di fatto, sganciata dalle urgenze della comunicazione viva, reale.
Gli esempi che i due autori citano sono piuttosto noti: la scuola predilige la parola viso alla più materica faccia, egli, ella a lui e lei e ingaggia una vera e propria guerra contro i verbi fare e dare sistematicamente sostituiti da una fiumana di sinonimi più nobili e più specifici: “effettuare” “eseguire” “porgere” “offrire” ecc. Si mostra, con l’analisi di alcune correzioni apportate a temi  di studenti diversi per età e regione, che quasi sempre, i docenti tendono a sacrificare l’espressione più vicina e più compromessa col dialetto rispetto alla più nobile, di natura più libresca o più burocratica.
 Coincidenze
Proprio in quei giorni mi trovavo a concludere un ciclo di lezioni sul verbo. Il manuale in adozione, alla fine di ogni capitolo, così come aveva fatto per i precedenti argomenti, chiudeva l’unità didattica con una sezione di approfondimento lessicale. In questo caso, la scheda verteva – per l’appunto!- su come evitare l’uso (attenzione: non solo nello scritto, anche nel parlato) del verbo-factotum  fare. Seguiva una pioggia di esempi, mille sinonimi, tutti puntualmente illustrati, con cui sostituire il meschinello. Alcuni, in verità, erano sinonimi pignoli più che precisi e talmente poco espressivi che quasi mi pareva sentirli, De Mauro e Camilleri, ridere a crepapelle e farsi beffe dei poveri autori del manuale!
Eppure. I miei alunni avevano bisogno di quell’approfondimento lessicale. Ne avevano bisogno, perché, in prima media, nei loro temi, fare, dare, cosa si spalmano dappertutto senza badare alle ripetizioni e lasciando, a prescindere, una sensazione di vago, di impreciso, di non-detto, di scorretto. Perché il loro vocabolario attivo è così ristretto da impedire sovente la comunicazione, anche immediata, di stati d’animo, urgenze, richieste, giudizi. Perché, per superare uno standard , bisogna prima acquisirlo, vivo o morto che sia.
Ho, dunque, contribuito anch’io a inamidare la lingua?
Forse, ma è un tributo che dovevo pagare. “Ho svolto i compiti dalle tre alle cinque del pomeriggio: ho eseguito un riassunto e una parafrasi”, scrive con diligenza Maria Vittoria. Io so che nella sua vita reale, Maria Vittoria, nel primo pomeriggio, quei compiti li ha FATTI, magari svogliatamente, con un occhio al televisore e uno a whatsapp, e so anche che eseguire una qualsivoglia operazione è COSA più triste e grigia che FARLA, tuttavia se la scuola, pur di salvaguardare l’espressività di fare, dare, avere, non mettesse in circolazione i loro numerosissimi sostituti (con tutta la pignoleria delle maestre di una volta!) farebbe il gioco della messaggeria breve che, per potenziare l’espressività, riduce parole e lettere, e le sostituisce con faccine universali o con suoni bruti. E allora, ben venga l’amido della lingua scolastica, almeno in prima media. Ma anche in seconda. Un po’ meno in terza. Ci sarà tempo (dovrà esserci!-  la Secondaria di Secondo Grado non dovrà mancare questo appuntamento) per acquisire una lingua pirotecnica, robusta. Magari leggendo Gadda, Tondelli, Fenoglio, Sanguineti…

Problemi 
Un bambino non poteva scrivere "gli uomini si arrabbiano", perché,
annotava l'insegnante,"si arrabbiano i cani, gli uomini si indignano"
(T. De Mauro)
Confesso, che nella prassi non è così semplice. Che correggere un elaborato scritto è, per me, una guerra fra istanze diverse, quella standardizzante che tutto corregge e appiana, e quella espressiva che cerca originalità nella trasgressione. Non parlo di quei compiti che grondano errori ortografici, grammaticali, sintattici e così via. Lì è facile. Il problema nasce quando la prof. pretende di sindacare sullo stile, sulla lingua di un elaborato, su certe scelte lessicali: un problema che si manifestava soprattutto nella Secondaria di Secondo Grado e soprattutto in presenza di alunni ad alto grado di creatività.
Mi spiego: se io assegno delle pagine di diario, la lettera a un amico, un articolo di giornale per un pubblico di coetanei e quindi sto autorizzando l’alunno all’uso di un registro informale quanto e cosa potrò accettare? Fino a che punto tollererò che i miei studenti forzino gli standard della lingua per ottenere l’espressività che mostrano quando parlano tra loro? E come mi comporto di fronte all’anacoluto? E di fronte alle dislocazioni a sinistra, a destra ormai proprie di giornali, libri, discussioni? Se assegno un racconto e chiedo di essere linguisticamente originali, se chiedo di inventare, se chiedo di giocare con la lingua, come farò a spiegare a Maria Vittoria che “Ho svolto i compiti dalle tre alle cinque del pomeriggio: ho eseguito un riassunto e una parafrasi” non va più bene?
Sdoganare il  MA PERÒ, che è ancora un tabù? E quando?
La partita che giochiamo quando correggiamo un elaborato scritto ha a che fare con l’eterna lotta tra la lingua d’uso e la grammatica, tra ciò che muta e ciò che regola. E noi docenti, da che parte stiamo? Per ora, noi siamo la regola, l’amido, il respiro corto. I libri che leggeranno, gli autori che ameranno, che noi consiglieremo, dovranno essere la trasgressione, la lunga gittata, la deviazione, il deragliamento, apprezzabili nel loro valore SOLO DOPO che quelle regole costrittive saranno state apprese e SE saranno state apprese.




2 commenti:

  1. Jimi Hendrix, oltre che per aver portato lo strumento chitarra ad un livello fino al suo tempo inesplorato è anche noto per averne rotto e bruciato una sul palco di uno dei tanti concerti devastanti che hanno caratterizzato la sua carriera.

    Ho letto l'articolo con preconcetto e di questo mi dispiaccio. L'ho fatto ingannato dal titolo e dalle premesse dei primi paragrafi per poi scoprire che in fondo l'unica cosa che avrei voluto dire in questo commento è ciò che poi hai riassunto in chiusura.

    Chiunque può comprare una chitarra e bruciarla. Sopprimere condizionali e farcire di periodi ipotetici i propri discorsi non ha valore se questa distruzione non è la digestione consapevole di una profonda conoscenza.

    Ho imparato a scrivere in modo leggibile solo in terza superiore, dopo aver acquistato un libro il cui insegnamento più significativo per me fu sul come le descrizioni di ambienti si facciano seguendo un andamento dello sguardo in senso orario o antiorario e mantenendone la coerenza.

    Ognuno può bruciare la propria chitarra; non prima di avere imparato a suonarla talmente bene dal poterla rivoluzionare.

    Antonio

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    1. Intanto grazie del commento! Sia perché è il primo, sia perché molto interessante: il'esempio di Hendrix è utile, perché può fare presa su quei ragazzi (contestatori per posa, innamorati dei futuristi, degli incendiari) che pretendono di arrivare alla distruzione saltando la fatica della costruzione.
      Difficile, quando si parla di scrittura, è farsi capire dagli alunni, far passare la "tecnica" (vedi la coerenza e l'ordine nella descrizione) senza congelare il guizzo creativo, ma è proprio in questa difficoltà che si dovrebbe distinguere il buon docente di Italiano dall'approssimativo.

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