Fra i numerosi spunti che ho ritenuto interessanti, voglio condividere
con voi alcune riflessioni scaturite, soprattutto, dalla lettura del terzo capitolo,
in cui i due autori si interrogano sul ruolo
della scuola nell’insegnamento dell’Italiano e sul progressivo
impoverimento del dialetto, privo ormai di una cultura tradizionale da cui
mutuare lemmi, espressioni, proverbi.
Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta (Don Milani) |
Premetto che non sono mai stata un’appassionata di dialetto locale, sia
perché appartengo a una generazione che non lo ha conosciuto in salute e che è
oggi incapace di parlarlo, di pronunciarlo bene o, spesso, persino di
comprenderlo, sia perché lo ritengo una barriera culturale per quanti non hanno
avuto e non avranno la formazione di Camilleri e potrebbero utilizzarlo come
forma esclusiva di comunicazione. Premetto che il mio apprendimento
dell’Italiano è stato, comunque, spesso rallentato dai vezzi e dalle abitudini
linguistiche regionali che fioccano di intercalari, di ridondanze, di modi di
dire presi in prestito dal dialetto ma che dialetto, in senso stretto, non sono
perché diffusi in una versione tradotta, italianizzata. Premetto, inoltre, che
nella mia comunicazione quotidiana, compresa quella formale di docente in
cattedra, una buona parte del messaggio da veicolare è affidato ai gesti e a
una generosa mimica facciale. Premetto, infine, che da adolescente, pur
studiando in un liceo classico, disponevo di un mio personale vocabolario
privato che spesso annoverava interiezioni e imprecazioni non canonizzate da
alcuno zingarelli, e spesso tuttora
affioranti quando parlo.
Per tutte queste ragioni, leggendo le considerazioni di Camilleri e De
Mauro sulla battaglia contro il dialetto da parte della scuola, mi sono sentita
chiamata in causa, anche perché, quest’anno, per la prima volta, ho insegnato
formalmente grammatica a studenti in età dell’obbligo, dedicando tre ore
settimanali alla riflessione sulla lingua, all’apprendimento delle sue
strutture, alla correzione di esercizi perfettamente corrispondenti al segmento
linguistico in esame.
Gli esempi che i due autori citano sono piuttosto noti: la scuola
predilige la parola viso alla più
materica faccia, egli, ella a lui e lei e ingaggia una vera e propria guerra
contro i verbi fare e dare sistematicamente sostituiti da una
fiumana di sinonimi più nobili e più specifici: “effettuare” “eseguire”
“porgere” “offrire” ecc. Si mostra, con l’analisi di alcune correzioni
apportate a temi di studenti diversi per
età e regione, che quasi sempre, i docenti tendono a sacrificare l’espressione
più vicina e più compromessa col dialetto rispetto alla più nobile, di natura più
libresca o più burocratica.
Proprio in quei giorni mi trovavo a concludere un ciclo di lezioni sul
verbo. Il manuale in adozione, alla fine di ogni capitolo, così come aveva
fatto per i precedenti argomenti, chiudeva l’unità didattica con una sezione di
approfondimento lessicale. In questo caso, la scheda verteva – per l’appunto!-
su come evitare l’uso (attenzione: non solo nello scritto, anche nel parlato)
del verbo-factotum fare. Seguiva una pioggia di esempi, mille sinonimi, tutti
puntualmente illustrati, con cui sostituire il meschinello. Alcuni, in verità, erano
sinonimi pignoli più che precisi e talmente poco espressivi che quasi mi pareva
sentirli, De Mauro e Camilleri, ridere a crepapelle e farsi beffe dei poveri
autori del manuale!
Eppure. I miei alunni avevano
bisogno di quell’approfondimento lessicale. Ne avevano bisogno, perché, in
prima media, nei loro temi, fare, dare,
cosa si spalmano dappertutto senza badare alle ripetizioni e lasciando, a
prescindere, una sensazione di vago, di impreciso, di non-detto, di scorretto. Perché
il loro vocabolario attivo è così ristretto da impedire sovente la comunicazione,
anche immediata, di stati d’animo, urgenze, richieste, giudizi. Perché, per
superare uno standard , bisogna prima
acquisirlo, vivo o morto che sia.
Ho, dunque, contribuito anch’io a inamidare la lingua?
Forse, ma è un tributo che dovevo pagare. “Ho svolto i compiti dalle tre alle cinque del pomeriggio: ho eseguito
un riassunto e una parafrasi”, scrive con diligenza Maria Vittoria. Io so
che nella sua vita reale, Maria Vittoria, nel primo pomeriggio, quei compiti li
ha FATTI, magari svogliatamente, con un occhio al televisore e uno a whatsapp, e
so anche che eseguire una
qualsivoglia operazione è COSA più triste e grigia che FARLA, tuttavia se la
scuola, pur di salvaguardare l’espressività di fare, dare, avere, non
mettesse in circolazione i loro numerosissimi sostituti (con tutta la pignoleria
delle maestre di una volta!) farebbe il gioco della messaggeria breve che, per
potenziare l’espressività, riduce parole e lettere, e le sostituisce con
faccine universali o con suoni bruti. E allora, ben venga l’amido della lingua
scolastica, almeno in prima media. Ma anche in seconda. Un po’ meno in terza.
Ci sarà tempo (dovrà esserci!- la Secondaria di Secondo Grado non dovrà
mancare questo appuntamento) per acquisire una lingua pirotecnica, robusta.
Magari leggendo Gadda, Tondelli, Fenoglio, Sanguineti…
Problemi
Un bambino non poteva scrivere "gli uomini si arrabbiano", perché, annotava l'insegnante,"si arrabbiano i cani, gli uomini si indignano" (T. De Mauro) |
Confesso, che nella prassi non è così semplice. Che correggere un
elaborato scritto è, per me, una guerra fra istanze diverse, quella
standardizzante che tutto corregge e appiana, e quella espressiva che cerca
originalità nella trasgressione. Non parlo di quei compiti che grondano errori
ortografici, grammaticali, sintattici e così via. Lì è facile. Il problema
nasce quando la prof. pretende di sindacare sullo stile, sulla lingua di un
elaborato, su certe scelte lessicali: un problema che si manifestava
soprattutto nella Secondaria di Secondo Grado e soprattutto in presenza di
alunni ad alto grado di creatività.
Mi spiego: se io assegno delle pagine di diario, la lettera a un amico,
un articolo di giornale per un pubblico di coetanei e quindi sto autorizzando
l’alunno all’uso di un registro informale quanto e cosa potrò accettare? Fino a che punto tollererò che i miei
studenti forzino gli standard della lingua per ottenere l’espressività che
mostrano quando parlano tra loro? E come mi comporto di fronte all’anacoluto? E
di fronte alle dislocazioni a sinistra, a destra ormai proprie di giornali,
libri, discussioni? Se assegno un racconto e chiedo di essere
linguisticamente originali, se chiedo di inventare, se chiedo di giocare con la
lingua, come farò a spiegare a Maria Vittoria che “Ho svolto i compiti dalle tre alle cinque del pomeriggio: ho eseguito
un riassunto e una parafrasi” non va più bene?
Sdoganare il MA PERÒ, che è ancora
un tabù? E quando?
La partita che giochiamo quando
correggiamo un elaborato scritto ha a che fare con l’eterna lotta tra la lingua
d’uso e la grammatica, tra ciò che muta e ciò che regola. E noi docenti, da
che parte stiamo? Per ora, noi siamo la regola, l’amido, il respiro corto. I
libri che leggeranno, gli autori che ameranno, che noi consiglieremo, dovranno
essere la trasgressione, la lunga gittata, la deviazione, il deragliamento, apprezzabili
nel loro valore SOLO DOPO che quelle regole costrittive saranno state apprese e
SE saranno state apprese.
Jimi Hendrix, oltre che per aver portato lo strumento chitarra ad un livello fino al suo tempo inesplorato è anche noto per averne rotto e bruciato una sul palco di uno dei tanti concerti devastanti che hanno caratterizzato la sua carriera.
RispondiEliminaHo letto l'articolo con preconcetto e di questo mi dispiaccio. L'ho fatto ingannato dal titolo e dalle premesse dei primi paragrafi per poi scoprire che in fondo l'unica cosa che avrei voluto dire in questo commento è ciò che poi hai riassunto in chiusura.
Chiunque può comprare una chitarra e bruciarla. Sopprimere condizionali e farcire di periodi ipotetici i propri discorsi non ha valore se questa distruzione non è la digestione consapevole di una profonda conoscenza.
Ho imparato a scrivere in modo leggibile solo in terza superiore, dopo aver acquistato un libro il cui insegnamento più significativo per me fu sul come le descrizioni di ambienti si facciano seguendo un andamento dello sguardo in senso orario o antiorario e mantenendone la coerenza.
Ognuno può bruciare la propria chitarra; non prima di avere imparato a suonarla talmente bene dal poterla rivoluzionare.
Antonio
Intanto grazie del commento! Sia perché è il primo, sia perché molto interessante: il'esempio di Hendrix è utile, perché può fare presa su quei ragazzi (contestatori per posa, innamorati dei futuristi, degli incendiari) che pretendono di arrivare alla distruzione saltando la fatica della costruzione.
EliminaDifficile, quando si parla di scrittura, è farsi capire dagli alunni, far passare la "tecnica" (vedi la coerenza e l'ordine nella descrizione) senza congelare il guizzo creativo, ma è proprio in questa difficoltà che si dovrebbe distinguere il buon docente di Italiano dall'approssimativo.